di Igor Colombo
In questi giorni si sta parlando sempre più insistentemente di salario minimo con il governo ed una parte di sindacato che è contrario ed una opposizione che è favorevole tanto da avanzare una proposta di legge per un salario minimo a 9 euro lordi all’ora. Attualmente l’Italia è uno dei pochi Stati membri dell’Ue a non avere il salario minimo e l’unico ad esserne privo tra i G7. Il governo per bocca di Giorgia Meloni ha ribadito di essere contrario all’introduzione per legge di un salario minimo, secondo il capo del governo meglio seguire la strada della contrattazione collettiva. Peccato che in tutta questa discussione nessuno tra maggioranza ed opposizione ricorda tutti i passaggi fatti per aumentare la precarizzazione del lavoro in Italia. Partiamo infatti dal governo del 1995 di Lamberto Dini che dopo aver affossato le pensioni con la sua riforma, diede il primo impulso deciso verso la precarietà dei lavoratori. Si proseguì poi con il pacchetto Treu del governo Prodi del 1996, passando per la Legge Biagi sotto l’egida di Berlusconi fino ad arrivare all’odioso Jobs act voluto da Renzi. La chiamavano “flessibilità ” per edulcorare nel termine autentiche macellerie sociali a danno dei lavoratori, soprattutto dei più giovani e di coloro i quali si apprestano, oggi come ieri, ad entrare nel mondo del lavoro. Siamo certi che la soluzione per cercare di rendere meno precario e più dignitoso il lavoro , sia il salario minimo? Oppure come dice la Meloni, una nuova contrattazione collettiva? Riguardo a quest’ultima quale esattamente? Quella forse gradita a Confindustria? Oppure l’unica via da seguire è quella salomonica del reddito universale? Si nota come i governi di vario colore politico, siano servi delle agende politiche di Bruxelles, dove vige la parola d’ordine che lo Stato deve essere solo il guardiano notturno di politiche economiche e del lavoro, dove il lavoro stesso deve essere subordinato al profitto del grande capitale finanziario. In un contesto di crisi generale dettata principalmente dal fatto che l’Italia cosi come la stragrande maggioranza degli altri Stati , non batta moneta propria attraverso una banca nazionale di proprietà , un abbrivo importante di rilancio delle politiche del lavoro, potrebbe essere rappresentato dall’unica legge oggi valida da scrivere per il lavoro, ossia quella sulla socializzazione dell’impresa. Quella della socializzazione dell’impresa fu non a caso la prima legge fascista ad essere abrogata perché invisa ai comunisti e soprattutto alla grande industria. Rendere finalmente partecipi i dipendenti degli utili delle imprese, in un’ottica non di lotta di classe nella visione marxista-leninista, ossia di lavoratore contro l’imprenditore, ma entrambi sullo stesso percorso di crescita e guadagno, raggiungendo la tanto agognata pace sociale. Con una legge sulla socializzazione sarebbe riconosciuta l’importanza del capitale produttivo che investe per creare impresa e lavoro, in un disegno economico di armonizzazione degli elementi e di condivisione di tutte le responsabilità , degli utili e del bene e della sopravvivenza dell’azienda stessa. Negli ultimi trent’anni le leggi economiche dei governi, hanno trasformato i proprietari in proletari, hanno creato precarietà del lavoro, disoccupazione, incertezza e disperazione. Sarebbe ora di cambiare marcia , perché se sei contro il Reddito di cittadinanza, devi creare politiche attive che diano lavoro e non ulteriore
martedì 4 luglio 2023
Colombo, salario minimo? No legge sulla socializzazione
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di Giuseppe Parente
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